Quando si parla di clima e sostenibilità ambientale si sente spesso il termine “Carbon Footprint”. Ma cosa si intende con “Impronta di Carbonio” del cibo e come si calcola con precisone? Tutte le attività umane e naturali causano l’emissione di gas a effetto serra in atmosfera, come anidride carbonica e metano. Questi possono crearsi dall’impiego di combustibili fossili, dalla produzione e consumo del cibo, dalle attività industriali, dai trasporti e da altri servizi. Il totale delle emissioni di gas a effetto serra è appunto la “Carbon Footprint”, che si esprime come anidride carbonica equivalente. L’impronta di carbonio è uno degli indicatori più utilizzati per esprimere il livello di sostenibilità di un prodotto o di un’attività, per valutare la sua incidenza sul cambiamento climatico.
Per calcolare la Carbon Footprint in modo da ridurre al minimo gli errori di valutazione, bisogna tenere in considerazione l’intero ciclo di vita di un prodotto o di una attività che si sta analizzando. In questo modo è possibile identificare criticità in specifici punti di una filiera produttiva e massimizzarne l’efficienza per ridurne gli impatti. In particolare, emerge che l’utilizzo dei combustibili fossili resta ancora la principale fonte di emissioni.
A dispetto di ogni sentito dire, il settore agricolo è quello con la minor corsa alle emissioni di gas serra, stimate al 12% del totale, in rapporto all’incremento della popolazione. Questo dimostra che le costanti innovazioni tecnologiche in agricoltura permettono di produrre una quantità di cibo sempre maggiore con un aumento limitato degli impatti. Anche gli ultimi dati FAO confermano la virtuosità del settore agricolo, mostrando una riduzione significativa delle emissioni, grazie ad una sempre maggiore efficienza in agricoltura e nelle filiere zootecniche.
Ma quali sono nel dettaglio i gas che contribuiscono all’effetto serra? I più rilevanti sono l’anidride carbonica (CO2) generata dall’utilizzo dei combustibili fossili, il metano (CH4) delle fermentazioni enteriche della digestione dei bovini e dalla gestione delle loro deiezioni, e il protossido di azoto (N2O) dovuto all’utilizzo di concimi a base azoto naturali o di sintesi. Queste tre sostanze contribuiscono in modo diverso al cambiamento climatico a causa del loro differente comportamento chimico-fisico. Si può dire che emettere un grammo di metano è come emettere quasi 30 grammi di CO2, mentre un grammo di N2O corrisponde all’emissione di 265 grammi di CO2.
Il protossido di azoto è uno dei gas più critici, perché, anche se le quantità sono basse, il suo impatto unitario è più alto. Il protossido si crea dai batteri presenti nel suolo nel processo di assimilazione del concime da parte delle piante. Il discorso però è molto più complesso di quel che sembra, in quanto quando si calcolano le emissioni di gas serra di un sistema agroalimentare bisogna considerare anche le “emissioni biogeniche”, che di fatto non sono inquinanti perché ritornano in un ciclo naturale delle cose. Infatti, mentre nel caso dei combustibili fossili viene generata nuova CO2 inquinante che ritornerà carbone solo tra milioni di anni, nel caso della produzione agricola invece la crescita delle biomasse come piante o animali permette di assorbire parte della CO2 emessa. Questo consente di guardare il problema da una nuova prospettiva, in quanto nonostante i sistemi agricoli e zootecnici rappresentino una fonte di gas serra, è anche vero che i processi sono in grado di assorbire parte delle emissioni grazie ad un flusso ciclico naturale, regolato da uno scambio continuo tra piante, animali e ambiente circostante.
Questo aspetto, mai considerato prima d’ora, apre nuove opportunità per gli operatori agricoli e zootecnici, per valorizzare alcune pratiche che permettono di generare “crediti di carbonio” da utilizzare come compensazione nella propria catena del valore. Affinché i sistemi agricoli possano essere valutati a “impatto zero”, il ciclo emissione-assorbimento deve essere equilibrato, con un lasso temporale tra il momento dell’emissione in atmosfera e l’assorbimento completo di quella CO2 più breve possibile. Il problema dei combustibili fossili è proprio questo, che si rigenerano in milioni di anni, quindi con tempi troppo lunghi rispetto a quelli con cui vengono emessi in atmosfera.
Insomma, la diversa permanenza dei gas in atmosfera deve essere tenuta in considerazione. L’effetto serra viene calcolato in un arco temporale di 100 anni, anche se le varie sostanze hanno un comportamento molto diverso. Una volta emessa anidride carbonica, questa può persistere in atmosfera e continuare ad avere effetti sul clima per oltre mille anni. Il metano, invece, anche se ha un impatto maggiore ha un tempo di permanenza molto più breve, di circa 10 anni. Ecco perché nel calcolo della Carbon Footprint bisognerebbe separare le emissioni derivate da combustibili fossili da quelle biogeniche, che nascono da sistemi biologici.
Stando a tutte queste considerazioni, si può dire che l’agricoltura e la zootecnia, se gestite nel modo giusto, più che un problema possono rappresentare una soluzione al cambiamento climatico.