Negli ultimi mesi la sostenibilità applicata ai temi del cibo ha scalato la top ten degli argomenti in assoluto più chiacchierati; questo ha un aspetto positivo – si iniziano finalmente ad affrontare alcuni problemi – ma ne ha anche uno negativo: quando si traslano gli approcci usati per i sistemi industriali nell’ambito del food, galoppa veloce il rischio di superficialità. Bisogna fare attenzione: il cibo è diverso per un po’ di motivi.
Un primo aspetto riguarda la complessità. I sistemi agricoli o zootecnici sono solo apparentemente semplici: rispetto a quelli industriali, essi hanno la caratteristica di essere influenzati da molte più variabili (clima, varietà coltivate, malattie, precessioni), le quali rendono più complesso sia il loro controllo sia la quantificazione dei loro impatti. Come dicono gli agronomi, “quando fuori piove cambia tutto!”: se, ad esempio, una forte grandinata colpisce un meleto durante la fioritura, il raccolto sarà fortemente penalizzato e con esso i dati sugli impatti ambientali riferiti ai kg di mele prodotti. In un caso come questo è davvero possibile giudicare l’agricoltore come meno sostenibile?
Un secondo elemento riguarda la cosiddetta unità funzionale. Quando si analizza la produzione di un oggetto, la tendenza tipica è quella di riferire gli impatti ambientali ad un’unità di produzione: le emissioni per kg di acciaio, per kWh di energia elettrica, e così via. In genere, più basse sono le emissioni e meno è impattante il processo. Quando la stessa valutazione viene trasposta al mondo del food, si possono avere difficoltà di interpretazione: i sistemi di allevamento o di agricoltura intensiva, ad esempio, sebbene portino a impatti minori per unità di prodotto, possono tuttavia creare problemi locali, se i processi non vengono gestiti in modo adeguato. È quindi necessario dare molto più peso agli impatti locali rispetto a quanto viene fatto nelle analisi dei processi industriali, prendendo in considerazione, ad esempio, biodiversità, carbonio fissato al suolo e rilascio di azoto.
Il tempo, variabile non considerata nei sistemi industriali, è invece fondamentale in quelli agroalimentari, sia perché la coltivazione di un dato anno è fortemente influenzata da cosa è stato coltivato l’anno precedente (precessione) e sia perché le azioni di miglioramento non sono immediate ma richiedono il rispetto dei cicli biologici (l’agricoltura biologica permette di aumentare il carbonio al suolo ma ci vogliono anni per vederne i risultati). Questo vuol dire che per avviare processi di miglioramento è necessario avere un approccio molto strategico ed una visione di medio periodo.
Proseguiamo con una differenza operativa. Mentre le operazioni di un sistema industriale avvengono in pochi e ben definiti stabilimenti produttivi, nel caso delle filiere agricole o zootecniche la produzione può avvenire in centinaia se non migliaia di aziende agricole sparpagliate sul territorio. Questo limite in verità viene pian piano superato da strumenti informatici per la raccolta dei dati che, se ben utilizzati, possono trasformare il problema in un valore: quello di avere una copertura quasi totale di dati primari che permettono di rappresentare in modo molto preciso gli impatti di filiere anche molto complesse.
Un ultimo aspetto, non meno importante, riguarda tutto ciò che non rientra nel macro-insieme degli aspetti ambientali: caratteristiche nutrizionali, benessere degli animali, economie locali, prodotti tipici, sono tutti aspetti che devono essere affrontati quando si parla di sostenibilità del cibo e che, molto spesso, portano a dilemmi per i quali non è possibile identificare con chiarezza sistemi migliori di altri.
Noi in Perfect Food abbiamo ben chiari questi problemi ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare questo progetto, concentrandoci su di un settore molto critico: non abbiamo le soluzioni per tutto, ovviamente, ma facciamo del nostro meglio collaborando con una rete di partner che possa integrare le nostre conoscenze e competenze.